Individuazione

La mia vita. Scritti autobiografici (1856-1869)

15 agosto 1859

Chi consideri attentamente la vita scolastica, vedrà che si tratta di un'attività incessante, la quale, sebbene tutti i suoi eventi ritornino continuamente, conserva sempre un interesse notevole. Soprattutto sono importanti i suoi disparati episodi. Si dice comunemente: gli anni della scuola sono difficili e gravidi di conseguenze per tutta la vita futura, anni che pesano ai giovani, perché il loro spirito vivace deve sopportare dei vincoli pesanti; ma proprio per coloro cui riescono un peso, spesso questi anni sono anche vuoti. Perciò è molto importante farne buon uso; la regola principale è quella di coltivare tutte le scienze, le arti e le facoltà in pari misura, in modo tale che il corpo e lo spirito vadano di pari passo. Occorre guardarsi dall'unilateralità dello studio. Tutti gli scrittori vanno letti per più d'un motivo; non soltanto per via della grammatica, della sintassi e dello stile, ma anche per il loro contenuto storico, per la loro visione spirituale; anzi si dovrebbe congiungere la lettura degli scrittori greci e latini con lo studio dei classici tedeschi, per paragonarne le diverse concezioni. Così anche la storia va coltivata solo unitamente alla geografia, la matematica con la fisica e la musica; solo allora l'albero della verità, vivificato da un solo spirito, illuminato da un unico sole, darà splendidi frutti.

23 agosto 1859

L'autunno mi fa sempre pensare alla mia futura posizione nel mondo; perché è allora che la gioventù dovrà dare i suoi frutti. Ma mi atterrisce il pensiero che soltanto allora godrò il premio delle fatiche trascorse. La mia anima deve vivere una perpetua primavera, perché con lo svanire della rosea stagione dei fiori avrà fine anche la mia esistenza. Che dolore rimpiangere la primavera della terra, ma quanto più amara ancora è questa perdita!

estate 1859

Non sono uno che veda fuggir la primavera senza piangere, e stento a comprendere come si possa tornar volentieri a imprigionarsi nei propri ceppi. Ma ormai la mia massima è: goditi la vita così come ti si offre, e non pensare alle fatiche future. Questo è ad ogni modo il più grande principio umano che ho appreso a Pforta. Quando tristi pensieri mi tormentavano e l'anima mia soffriva di nostalgia, quando vedevo con melanconia sfiorire la primavera e il mio cuore si struggeva nel dolore più profondo, allora quel pensiero serpeggiava come una ghirlanda di rose tra le rovine del passato, e io... giocavo ai birilli! Fuggite quindi, pensieri di vacanze alla fine! Gagliardo e pieno di gioia di vivere, gettati sulla fiacca vita e conquistati la palma del miglior uso fatto delle vacanze!

estate 1859

Ho celebrato il mio compleanno e mi son fatto più vecchio. - Il tempo svanisce come la rosa di primavera, e il piacere come la spuma del torrente. -

Mi ha preso una straordinaria sete di conoscenze, di cultura universale; Humboldt ha destato in me questa tendenza. Se solo fosse costante come la mia inclinazione alla poesia.

Fin dalla prima infanzia ho avuto i miei passatempi preferiti. Anzitutto i fiori e le piante, la scorza della terra. E’ vero che la cosa mi risulta soltanto per sentito dire. - Poi venne l'amore per l'architettura (fondato naturalmente soprattutto sulle scatole di costruzioni), che ho sviluppato in tutte le forme. Mi ricordo che, ancora piccolissimo, a Röcken, costruii durante le funzioni una piccola cappella. Più tardi vennero splendidi templi con vani colonnati, alte torri con le scale a spirale, miniere con laghi sotterranei e illuminazione interna e infine castelli, ispirati, insieme al mio terzo amore per l'arte della guerra, soprattutto dalla grande guerra di Crimea. Le prime a essere inventate furono le macchine d'assedio (ho scritto un libriccino sugli stratagemmi guerreschi); mi procurai libri di argomento militare e marinaresco, feci grandi piani per armare una nave, realizzai numerosi assedi e battaglie, in cui si lanciavano palline di pece infuocate, e tutto ciò non era che la preparazione per un grande obiettivo, una grande battaglia tra nazioni, che però non andò oltre i preparativi. Il mio amore per le cose militari si dimostrò tra l'altro nella stesura di un grande lessico militare universale; ma la cosa finì con la caduta di Sebastopoli. Ma un cosiddetto Theater des arts mi indirizzò alla scena; cercammo di scrivere qualcosa di nostro pugno e di rappresentarlo, cominciando dagli dèi dell'Olimpo. Nello stesso tempo nacque in me l'inclinazione alla poesia, già a nove anni, e i miei modesti tentativi si ripeterono ogni anno. A undici anni mi nacque la passione per la musica sacra e infine per la composizione: la causa l'ho indicata altrove. Anche il mio amore per la pittura risale a questo periodo, suscitato dalle esposizioni annuali. - Queste passioni non si succedono immediatamente, bensì si intrecciano, così che è impossibile determinarne il principio e la fine. In seguito si aggiunge l'inclinazione per la letteratura, la geologia, l'astronomia, la mitologia, la lingua tedesca (antico alto tedesco), ecc., sicché possono distinguersi i gruppi seguenti:

1) Godimento della natura

     a) Geologia b) Botanica c) Astronomia

2) Godimento dell'arte

     a) Musica b) Poesia c) Pittura d) Teatro

3) Imitazioni della vita pratica

     a) Arte della guerra b) Architettura c) Scienza nautica

4) Passioni scientifiche particolari

     a) buono stile latino b) Mitologia c) Letteratura d) lingua tedesca

5) Impulso interiore alla conoscenza universale abbraccia tutte le cose precedenti e ne aggiunge parecchie di nuove.

Lingue                                             Arti

I. Ebraico                                        1. Matematica

2. Greco                                         2. Musica

3. Latino                                        3. Poesia

4. Tedesco                                     4. Pittura

5. Inglese                                      5. Plastica

6. Francese                                   6. Chimica ecc.

Imitazioni                                     Scienza

1. Arte militare                            1. Geografia

2. Scienza nautica                        2. Storia

3. Conoscenza dei vari mestieri      3. Letteratura

                                                 4. Geologia ecc.

                                                 5. Storia naturale

                                                6. Antichità, ecc.

e sopra ogni altra cosa la Religione, baluardo di ogni sapere!

Grande è il regno della scienza, e interminabile la ricerca della verità.

1862

Le irritazioni e le contrarietà di natura personale sogliono facilmente assumere presso i giovani un carattere più generale, per poco che essi siano inclini alla discolia. Io in quel tempo, proprio a causa di certe dolorose esperienze e delusioni, mi trovavo sospeso, solo e privo d'aiuto, senza basi teoriche, senza speranze né ricordi graditi. La mia preoccupazione incessante era quella di costruirmi una vita su misura…

Si immagini ora quale effetto in simili circostanze mi dovesse produrre la lettura dell'opera principale di Schopenhauer. Un giorno avevo trovato nella bottega del vecchio antiquario Rohn un libro che non conoscevo affatto: lo presi in mano e lo sfogliai. Non so quale demone mi sussurrasse: «Portati a casa questo libro». La cosa comunque accadde contrariamente alla mia abitudine, che era di non esser mai precipitoso nell'acquisto di libri. A casa mi gettai su un angolo del sofà col mio nuovo tesoro e cominciai a sottopormi all'influsso di quel genio cupo ed energico. Qui era ogni riga a proclamare la rinuncia, la negazione, la rassegnazione; in quello specchio vedevo riflessi in dimensioni terrificanti il mondo, la vita e il mio proprio animo. Da quelle pagine mi fissava l'occhio solare e totalmente disinteressato dell'arte, qui io scorgevo il morbo e la guarigione, l'esilio e il rifugio, il cielo e l'inferno. Il bisogno di conoscermi, anzi di dilaniarmi mi prese con violenza; testimonianze di quella rivoluzione spirituale sono ancor oggi per me le inquiete e melanconiche pagine di diario di quel tempo, piene di vane autoaccuse e della disperata attesa di una santificazione e trasformazione dell'intera sostanza dell'uomo. Trascinando tutte le mie qualità e le mie aspirazioni davanti al tribunale di un cupo autodisprezzo, ero amaro, ingiusto e sfrenato nell'odio contro me stesso. Né mancavano le punizioni corporali. Così, per quattordici giorni di seguito, mi forzai ad andare a letto non prima delle due di notte, e a lasciarlo alle sei in punto. Caddi in preda a una violenta agitazione nervosa, e chissà fino a che punto di follia sarei arrivato, se non avessero operato in senso contrario gli allettamenti della vita e della vanità e l’obbligo degli studi regolari.

1862

Noi siamo stati influenzati, senza recare dentro di noi la forza di una reazione opposta, persino senza sapere che siamo influenzati. E' un sentimento doloroso quello di avere rinunciato alla propria indipendenza con l'ipotesi inconscia di impressioni esterne, di avere schiacciato facoltà dell'anima con la forza dell'abitudine e di avere involontariamente gettato nell'anima i germi di errori e deviazioni.

Lo scopo, il mutamento esistono solo per noi, solo per noi ci sono le epoche e i periodi. E come potremmo del resto scorgere piani superiori. Noi vediamo soltanto come dalla stessa sorgente, dall'essenza umana, si formano idee sotto impressioni esterne; come queste assumano vita e forma; diventino patrimonio di tutti, coscienza, senso del dovere; come l'eterno istinto produttivo le elabori in quanto materiale per nuove idee, come esse plasmino la vita, reggano la storia; come esse nel conflitto reciproco si arricchiscano a vicenda e come da questa nuova miscela scaturiscano nuove conformazioni. Uno scontrarsi e un ondeggiare tra correnti diverse, con alta e bassa marea, tutte affluenti verso l'oceano eterno.

Tutto si muove in circoli immensi che si allargano sempre più l'uno attorno all'altro; l'uomo è uno dei circoli che si trovano più all'interno. Se vuole cogliere e misurare le vibrazioni dei circoli esterni, deve astrarre da se stesso e dai circoli più ampi ma prossimi fino a giungere a quelli più esterni e più vasti. I circoli più ampi ma prossimi sono la storia dei popoli, della società e dell'umanità. Cercare il centro comune di tutte le vibrazioni, il circolo infinitamente piccolo è compito della scienza; a questo punto, in cui l'uomo cerca quel centro dentro di sé e per sé, riconosciamo l'importanza unica che per noi debbono avere la storia e la scienza.

Ma, essendo l'uomo coinvolto e trascinato nei circoli della storia universale, nasce quel conflitto della volontà individuale con la volontà complessiva; qui troviamo accennato quel problema infinitamente importante, la questione cioè della giustificazione dell'individuo rispetto al popolo, del popolo rispetto all'umanità, dell'umanità rispetto al mondo; anche qui il rapporto fondamentale tra fato e storia.

1867-1868

Il bisogno di conoscermi, anzi di dilaniarmi mi prese con violenza; testimonianze di quella rivoluzione spirituale sono ancor oggi per me le inquiete e melanconiche pagine di diario di quel tempo, piene di vane autoaccuse e della disperata attesa di una santificazione e trasformazione dell'intera sostanza dell'uomo.

Trascinando tutte le mie qualità e le mie aspirazioni davanti al tribunale di un cupo autodisprezzo, ero amaro, ingiusto e sfrenato nell'odio contro me stesso. Né mancavano le punizioni corporali. Così, per quattordici giorni di seguito, mi forzai ad andare a letto non prima delle due di notte, e a lasciarlo alle sei in punto. Caddi in preda a una violenta agitazione nervosa, e chissà fino a che punto di follia sarei arrivato, se non avessero operato in senso contrario gli allettamenti della vita e della vanità e l’obbligo degli studi regolari.

1868-1869

Da una certa qual vaga dispersione nelle numerose direzioni delle mie capacità mi protesse una determinata serietà filosofica, mai paga se non in presenza della nuda verità, e l'animo impavido, anzi addirittura propenso alle conclusioni più dure e spiacevoli. La convinzione di non poter arrivare a toccare il fondo delle cose nell'universale mi spinse tra le braccia del rigore scientifico.

1868-1869

Gli aspetti più importanti della mia educazione rimasero affidati a me stesso. Mio padre, pastore protestante di campagna in Turingia, morì troppo presto: mi venne a mancare la guida severa e superiore di un intelletto virile. Quando, fattomi ragazzo, andai a scuola a Pforta, conobbi soltanto un surrogato dell'educazione paterna, la disciplina uniformatrice di una scuola ben ordinata. Ma fu proprio quella costrizione quasi militaresca, la quale, dovendo agire sulla massa, tratta l'individuo con freddezza e superficialità, che mi ricondusse a me stesso. Di fronte all'uniformità del regolamento posi in salvo i miei talenti, le mie private aspirazioni, coltivai clandestinamente certe arti e mi sforzai, nell'entusiastica ricerca di un sapere e di una fruizione universale, di spezzare la rigidità di un orario e di un impiego del tempo governati dal regolamento.

1868-1869

Voglio dire che ricercavo un contrappeso alle inquiete e mutevoli inclinazioni che mi avevano dominato fino allora, una scienza che potesse venir coltivata con fredda riflessione, con logico distacco e con operosità uniforme, senza toccar subito il cuore con i suoi risultati. Tutto ciò io credevo di trovarlo allora nella filologia.

La nascita della tragedia (1872)

Basilea, fine dell'anno 1871

9.

Nell'eroico impulso del singolo verso l'universale, nel tentativo di oltrepassare la barriera dell'individuazione e di voler essere esso stesso l'unica essenza del mondo, egli soffre in sé la contraddizione originaria occultata nelle cose: cioè commette un sacrilegio e soffre.

Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)

6.

Tracciate intorno a voi la siepe di una speranza grande e vasta, di una aspirazione piena di speranza. Formate in voi un'immagine alla quale deve corrispondere il futuro e dimenticate la superstizione di essere epigoni. Voi avete abbastanza da architettare e da inventare, mentre riflettete su quella vita futura; ma non chiedete alla storia che essa vi indichi il come e il mezzo. Se invece vi identificherete nella storia dei grandi uomini, imparerete da essa un supremo comandamento, quello di diventare maturi e di sfuggire al paralizzante incantesimo dell'educazione del tempo, che vede la sua utilità nel fatto di non farvi diventare maturi, per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, non siano quelle con il ritornello «Il Signor Tal dei Tali e il suo tempo», bensì quelle sul cui frontespizio dovrebbe essere scritto «Un lottatore contro il suo tempo».

10.

Questa è una parabola per ognuno di noi: ognuno deve organizzare in sé il caos, concentrandosi sulle sue vere esigenze. La sua onestà, il suo carattere gagliardo e verace deve, un giorno o l'altro, volgersi contro il fatto che sempre e soltanto si ripeta, si impari da altri e si imiti; comincerà allora a comprendere che la cultura può essere anche qualcosa di diverso da una decorazione della vita, è, in fondo, sempre e soltanto simulazione e mascheramento; poiché ogni ornamento nasconde ciò che è ornato.

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

1.

Il grande pensatore che disprezza gli uomini, ne disprezza la pigrizia: poiché a causa di questa essi appaiono simili a prodotti di fabbrica, indifferenti, indegni di contatti e di ammaestramenti. L'uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di essere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: «sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora».

Ogni giovane anima sente giorno e notte questo appello e ne trema; infatti presagisce, rivolgendo il pensiero alla sua reale liberazione, la misura di felicità destinatale dall'eternità; felicità che non riuscirà mai a raggiungere se incatenata dalle opinioni e dalla paura. E quanto assurda e desolata può divenire l'esistenza senza questa liberazione!...

Anche se il futuro non ci lasciasse speranze ‑ la nostra straordinaria esistenza proprio nel suo ora ci dà forza più di ogni altra cosa a vivere secondo una legge e una misura nostra: quel qualcosa d'inesplicabile per cui noi viviamo, proprio oggi, pur avendo avuto il tempo infinito per nascere, per cui null'altro possediamo se non un oggi brevissimo e in esso dobbiamo mostrare perché e a che scopo siamo nati proprio ora.

Noi siamo responsabili davanti a noi stessi della nostra esistenza; quindi vogliamo essere i veri timonieri di questa esistenza e non permettere che assomigli a pura accidentalità senza pensiero. Con essa bisogna saper trattare con audacia, esponendosi al rischio: tanto più che, sia nel migliore che nel peggiore dei casi, la perderemo. Perché allora essere attaccati a questa zolla, a questo mestiere, perché drizzare le orecchie per sentire ciò che dice il prossimo?

Nessuno può costruirti il ponte sul quale tu [giovane anima] devi attraversare il fiume della vita, nessuno se non tu stessa. Ci sono sì infiniti sentieri e ponti e semidei pronti a portarti oltre il fiume; ma solo al prezzo di te stessa: tu daresti in pegno te stessa e ti perderesti. Nel mondo esiste una sola strada che nessuno, se non tu, può percorrere: dove conduce? Non domandare, ma seguila! Di chi era la frase «Mai uomo si innalza tanto come quando non sa dove può condurlo la sua strada»?...

Guardi la giovane anima indietro nella propria vita, e si chieda: che cosa hai veramente amato finora, che cosa ha attratto la tua anima, che cosa l'ha dominata e allo stesso tempo resa felice? Allinea davanti a te questi venerati oggetti ed essi, forse, con il loro essere e la loro successione, ti daranno una legge, la legge fondamentale di te stesso. Confronta questi oggetti e osserva come l'uno completi l'altro, lo ampli, lo superi e lo trasfiguri fino a formare una scala su cui tu finora ti sei arrampicato alla conquista di te stesso; la tua vera essenza infatti non sta profondamente celata dentro di te, ma smisuratamente al di sopra di te o, almeno, al di sopra di ciò che tu sei solito considerare il tuo io.

3.

Schopenhauer ebbe poco a che fare con le caste dei dotti, se ne separò, mirò all'indipendenza dallo Stato e dalla società ecco il suo esempio, il suo modello per prendere qui le mosse dagli elementi più esteriori.

Ognuno ha in sé una unicità produttiva, che costituisce il nucleo del suo essere; quando, però, diventa consapevole di questa unicità, intorno a lui appare uno splendore insolito, tipico di ciò che è straordinario. Per i più ciò è qualcosa di insopportabile: perché, come ho detto, sono pigri e perché a quella unicità è legata una catena di affanni e di pesi. Non c'è dubbio che, per chi è straordinario e sgrava di questa catena, la vita deve perdere quasi tutto ciò che ci si aspetta da lei nella gioventù: serenità, sicurezza, leggerezza, onore; la sorte dell'isolamento è il regalo che gli fanno gli altri uomini; deserto e caverna gli si offrono ovunque voglia vivere. Allora stia ben attento a non farsi soggiogare, a non deprimersi o immalinconirsi. Perciò si circondi delle immagini di bravi e valorosi combattenti, quale fu lo stesso Schopenhauer.

4.

Ogni esistenza che può essere negata, merita anche di esserlo; e essere veritiero significa credere ad un'esistenza che non potrebbe essere assolutamente negata e che è essa stessa vera e senza menzogna. Perciò colui che è veritiero avverte nella sua attività un significato metafisico, spiegabile secondo le leggi di una vita diversa e superiore, e, nel senso più profondo, affermativo: anche se tutto ciò che fa appare come un distruggere e un infrangere le leggi di questa vita. In ciò il suo agire deve diventare una continua sofferenza, ma egli sa ciò che anche Meister Eckhart ben sapeva: «l'animale più veloce che ci porta alla perfezione è la sofferenza».

Dovrei pensare che a chiunque si ponga davanti all'anima una tale direzione di vita, si allarghi il cuore e nasca in lui un desiderio ardente di essere un tale uomo schopenhaueriano: cioè pure per sé e per il suo personale benessere, di una tranquillità meravigliosa, nella sua conoscenza pieno di fuoco vigoroso e divoratore e molto lontano dalla fredda e sprezzante neutralità del cosiddetto uomo di scienza, molto al di sopra di una contemplazione tetra e annoiata, pronto sempre a offrire se stesso come prima vittima della verità riconosciuta, e compenetrato nel profondo della consapevolezza di quali dolori e sofferenze debbano nascere dalla sua veridicità.

Certo egli distrugge la sua felicità terrena con il suo eroismo, deve essere ostile anche verso gli uomini che ama, verso le istituzioni dal cui grembo è uscito; non può risparmiare né uomini né cose, anche se, nel ferirle, soffre con loro; sarà misconosciuto e considerato a lungo alleato di quelle forze che egli più disprezza, dovrà, secondo una misura umana della sua visione, essere ingiusto, con tutta la sua aspirazione alla giustizia: tuttavia potrà prendere coraggio e consolazione dalle parole che Schopenhauer, suo grande educatore, una volta ha usato: «Una vita felice è impossibile, il massimo che l'uomo può raggiungere è una vita eroica. Questa è la vita che conduce colui che, per un motivo qualsiasi, combatte tra difficoltà enormi per tutto ciò che, in un modo qualsiasi, sia un bene per gli altri, e alla fine vince, ma in questo è male o per niente ricompensato. Alla fine rimane come il principe del Re corvo di Gozzi: pietrificato, ma in nobile atteggiamento e magnanimo aspetto. La sua memoria rimane ed è celebrata come quella di un eroe; la sua volontà, mortificata durante tutta la vita da fatica e lavoro, dall'insuccesso e dall'ingratitudine del mondo, si dissolve nel Nirvana».

6.

Già oggi il singolo che ha inteso quella nuova idea fondamentale della cultura, è posto di fronte ad un bivio: percorrendo una strada è ben accetto alla sua epoca, non gli mancheranno corone e ricompense, potenti partiti lo sosterranno e alle sue spalle, come davanti a sé, vi saranno tanti che la pensano allo stesso modo, e quando il capofila pronuncia la parola d'ordine, essa riecheggia in tutte le file. Il primo dovere qui è: «combattere allineati», il secondo, trattare come nemici coloro che non vogliono allinearsi. L'altra strada gli offre più rari compagni di viaggio, è più ardua, contorta, ripida: coloro che percorrono la prima lo deridono perché là avanza con più fatica e spesso si trova in pericolo, e tentano di attirano sul loro cammino. Se le due strade si incrociano, egli viene maltrattato, gettato da parte, oppure isolato con un timoroso trarsi da parte.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

3.

Si può presumere che uno spirito nel quale il tipo del «libero spirito» sia destinato a giungere a piena e dolcissima maturazione, abbia avuto il suo evento decisivo in una grande separazione, e che esso prima apparisse uno spirito tanto più legato e costretto per sempre al suo cantuccio e alla sua colonna. Che cosa lega più saldamente? Quali vincoli è quasi impossibile infrangere? Per uomini di specie alta ed eletta saranno i doveri: il rispetto, che è proprio della gioventù, il timore e la sensibilità per tutto ciò che è da sempre venerato e ritenuto degno, la gratitudine per il terreno da cui sono cresciuti, per la mano che li ha guidati, per il santuario dove hanno imparato a pregare - i loro stessi momenti più alti li legheranno nel modo più saldo, li obbligheranno nel modo più duraturo.

Per simili incatenati la grande liberazione giunge improvvisa, come una scossa di terremoto: a un tratto la giovane anima viene scossa, strappata via, divelta - né capisce essa stessa che cosa stia accadendo. Un impulso e un impeto la dominano e divengono per lei come l’ordine di un padrone; si destano una volontà, un desiderio di andar via, non importa dove, ad ogni costo; una prepotente, pericolosa avidità di conoscere un mondo mai scoperto arde e divampa in tutti i suoi sensi. «Piuttosto morire che vivere qui», dice una voce imperiosa e seducente: e questo «qui», questo «a casa» è tutto quello che sinora la giovane anima aveva amato! Una paura e una diffidenza improvvisa verso ciò che essa amava, un lampo di disprezzo verso quel che per essa significava «dovere», un desiderio ribelle, arbitrario, vulcanicamente irruente di partire, allontanarsi, straniarsi, raffreddarsi, rinsavire, gelarsi, un odio per l’amore, forse un gesto e uno sguardo sacrileghi indietro, verso ciò che essa sinora aveva venerato e amato, forse un rossore di vergogna per queI che ha appena fatto, e insieme un’esultanza per averlo fatto, un ebbro, esultante brivido interiore nel quale si rivela una vittoria - una vittoria? su che cosa? su chi? una vittoria enigmatica, ricca di domande, problematica, ma pur sempre la prima vittoria: simili cose brutte e dolorose appartengono alla storia della grande liberazione.

Questa prima esplosione di forza e di volontà di autodeterminazione, di auto-posizione di valori, questo volere una volontà libera, è allo stesso tempo anche una malattia che può distruggere l’uomo: e questa malattia si esprime nei selvaggi tentativi e bizzarrie con cui l’affrancato, il liberato cerca ora di dimostrare a se stesso la propria signoria sulle cose! Si aggira intorno con animo crudele, con inappagata bramosia; ciò che egli rapina, deve scontare su di sé la pericolosa tensione del suo orgoglio; egli distrugge ciò che lo affascina. Con un riso cattivo egli rovescia ciò che scopre e trova protetto da un qualche pudore; vuol sperimentare come appaiono queste cose quando le si rovescia. C’è arbitrio, e gusto dell’arbitrio, quando talvolta egli volge il suo favore a ciò che sino allora godeva di cattiva fama - quando, curioso e tentatore, striscia attorno a quanto c’è di più proibito. Sullo sfondo dei suoi sforzi e del suo vagabondare -perché egli gira inquieto e senza meta come in un deserto - si erge il punto interrogativo di una curiosità sempre più rischiosa. «Non si possono sovvertire tutti i valori? e il bene, non è forse il male? e dio non è una raffinata invenzione del diavolo? In fondo, forse, non è tutto falso? E se noi siamo ingannati, non siamo forse, appunto per questo, anche ingannatori? non dobbiamo essere anche degli ingannatori?» - tali sono i pensieri che lo conducono e io seducono, sempre più in là, sempre più lontano. Lo circonda e io stringe la solitudine, sempre più minacciosa, soffocante, angosciosa, dea terribile e mater laeva cupidinum - ma oggi, chi sa cosa sia la solitudine?…

4.

Da questo morboso isolamento, dal deserto di tali anni di esperimenti, ancor lungo è il cammino per giungere a quella enorme e dirompente sicurezza e salute, che non può fare a meno della stessa malattia, come strumento ed esca della conoscenza; per giungere a quella matura libertà dello spirito che è dominio di sé e disciplina del cuore e insieme la via per molti e opposti modi di pensare - a quella interiore amplitudine e incontentabilità che deriva dall’eccessiva ricchezza ed esclude il pericolo che lo spirito si perda, invaghendosene, nei suoi propri sentieri e, inebriato, resti fermo in un qualche angolo; sino a quella sovrabbondanza di forze plasmatrici, risanatrici, ricostitutrici che è appunto il segno della grande salute, sovrabbondanza che conferisce allo spirito libero il pericoloso privilegio di poter vivere dell’esperimento e di potersi dare all’avventura: il privilegio dello spirito libero che si fa maestro! In mezzo vi saranno lunghi anni di convalescenza, anni pieni di variopinte trasformazioni, dall’incanto doloroso, dominati e guidati da una tenace volontà di guarigione che spesso già osa prender l’abito della salute…

5.

Un passo avanti nella guarigione: e lo spirito libero si accosta di nuovo alla vita, anche se lentamente, quasi a malincuore, con diffidenza. Intorno a lui tutto torna ad essere più caldo, più solare; il sentimento di sé e degli altri si acuisce, e brezze di ogni sorta spirano intorno a lui. Ha quasi la sensazione che solo ora i suoi occhi si aprano a ciò che è vicino. E’ stupito, e siede in silenzio: dov’era dunque? Queste cose vicine e vicinissime, come gli appaiono mutate! di quale lanugine e incanto si sono rivestite nel frattempo! Egli volge indietro lo sguardo con riconoscenza - riconoscenza per le sue peregrinazioni, per la durezza e autoestraneamento, per il suo guardar lontano e i suoi voti d’uccello nelle fredde altezze. Quanto è bene che non sia rimasto sempre «a casa», sempre «presso di sé», come un timido e ottuso perdigiorno! Egli è stato fuori di sé: non v’è dubbio. Solo ora egli vede se stesso, e quali sorprese non vi scopre! quali brividi mai provati! Quale felicità, persino nella stanchezza della vecchia malattia, nelle ricadute del convalescente! Che piacere prova, a sedere in silenziosa sofferenza, a intessere una trama di pazienza, a giacere al sole!..

In quel periodo può infine accadere, tra i bagliori improvvisi di una salute ancora irruente e capricciosa, che allo spirito libero, sempre più libero, si cominci a svelare il mistero di quella grande liberazione, che sino a quel momento aveva atteso, oscuro, problematico e quasi intoccabile, nella sua memoria. Se a lungo egli quasi non aveva osato chiedersi: «Perché così isolato, così solo? rinunciando a tutto quanto veneravo, persino alla disperazione? perché questa durezza, questa diffidenza, questo odio per le mie stesse virtù?» - ora osa, e interroga a voce spiegata, e già ode qualcosa di simile a una risposta. «Dovevi diventare signore di te, signore anche delle tue virtù. Prima esse ti dominavano: ora possono solo essere uno strumento in mano tua, accanto ad altri strumenti. Dovevi acquistar potere sui tuoi pro e contro, e imparare a innestarli e disinnestarli a seconda del tuo scopo superiore. Dovevi imparare a capire quanto c’è di prospettico in ogni definizione di valore - lo spostamento, la distorsione, e l’apparente teleologia degli orizzonti e quanto altro fa parte del prospettico; e anche quel tanto di stupidità che si riferisce a ogni contrapposizione di valori, e tutto lo scapito intellettuale con cui si paga ogni pro e ogni contro. Dovevi imparare a capire la necessaria ingiustizia insita in ogni pro e contro, l’ingiustizia come elemento inscindibile della vita, e la vita stessa come condizionata dalla visione prospettica, e dalla sua ingiustizia.

Dovevi soprattutto vedere con i tuoi occhi dove l’ingiustizia raggiunge il massimo grado: ossia là, dove la vita è meno sviluppata, più angusta, manchevole, rozza, e ciononostante non può fare a meno di porsi a scopo e misura delle cose e, per amore di sopravvivenza, di sbriciolare in segreto, minutamente e senza posa, mettendolo in questione, tutto quanto è più elevato, più grande e ricco; dovevi vedere con i tuoi occhi il problema della gerarchia, e come la forza, il diritto e l’ampiezza della prospettiva si sviluppino insieme. Dovevi...» basta, ormai lo spirito libero sa a quale «dovere» ha obbedito, e anche di che cosa ora è capace, e che cosa solo ora gli è consentito…

7.

In siffatto modo lo spirito libero dà risposta circa l’enigma di quella liberazione e, generalizzando il suo caso, finisce per dare di questa sua esperienza il seguente giudizio. «Come è successo a me, egli si dice, dovrà succedere a ogni uomo nel quale un compito voglia prender corpo e “venire al mondo”.» La segreta forza e necessità di quel compito governerà sopra ed entro i suoi destini particolari, come una gravidanza insospettata - molto prima che egli ne abbia preso coscienza e ne conosca il nome.

94.

Le tre fasi sinora attraversate dalla moralità. - Il primo segno che la bestia è diventata uomo si ha quando il suo agire non si indirizza più al benessere momentaneo ma a quello durevole, quando dunque l’uomo persegue un utile, uno scopo: allora prorompe per la prima volta il libero dominio della ragione. Un livello ancora più alto si raggiunge quando l’uomo agisce secondo il principio dell’onore, grazie al quale egli si inserisce in un ordine, si sottomette a sentimenti comuni, il che lo innalza molto sulla fase in cui ancora lo guidava l’utile inteso in senso puramente personale: egli rispetta e vuol essere rispettato, intende cioè l’utile come dipendente da ciò che egli pensa degli altri, e gli altri di lui. Infine egli agisce, al più alto livello di moralità sinora raggiunto, secondo il proprio criterio degli uomini e delle cose, e decide egli stesso per sé e per gli altri ciò che è utile e onorevole; è diventato il legislatore delle opinioni, in base al concetto sempre più elevato dell’utile e dell’onorevole. La conoscenza lo mette in grado di anteporre il massimamente utile, cioè l’utile comune e duraturo, al personalmente utile, e l’onesto riconoscimento di una validità comune e durevole alla validità momentanea; egli vive e agisce da individuo collettivo.

95.

Morale dell’individuo maturo. - Sino ad ora si è considerato come vero segno distintivo dell’azione morale l’impersonalità; ed è dimostrato che all’inizio fu la considerazione dell’utile generale quella in base alla quale si lodavano e onoravano tutte le azioni impersonali. Non dovrebbe forse essere imminente un’importante trasformazione di queste opinioni, ora che sempre meglio si comprende come proprio nella considerazione più personale possibile sia anche la massima utilità collettiva, sicché proprio l’agire strettamente personale corrisponde all’attuale concetto di moralità (come utilità generale)? Far di sé una persona completa e, in tutto quanto si fa, tener presente il massimo bene di essa: questo porta molto più in là che non i compassionevoli moti e azioni in favore degli altri. Noi tutti siamo ancora affetti da una troppo scarsa considerazione di quanto in noi è personale, esso è malamente sviluppato -

495.

Ciò che indigna in un modo di vivere individuale. - Tutte le regole di vita molto individuali irritano gli uomini verso chi le adotta; si sentono umiliati, come esseri ordinari, dal trattamento fuori dell’ordinario che quello si concede.

619.

Nel fuoco del disprezzo. - Si compie un nuovo passo verso l’indipendenza quando si osa manifestare opinioni ritenute infamanti per colui che le nutre; allora anche gli amici e i conoscenti sogliono impaurirsi. Anche attraverso questo fuoco deve passare una natura dorata; dopo, essa apparterrà ancora di più a se stessa.

Volume II

4.

Ormai solo, e in una cattiva diffidenza nei miei confronti, non senza ira presi partito contro di me e a favore di tutto quello, appunto, che mi era doloroso e duro: - ritrovai così la strada verso quel coraggioso pessimismo che è l'opposto di ogni bugiardume romantico e, come oggi voglio credere, la strada verso «me» stesso, verso il mio compito. Quel qualcosa nascosto e imperioso al quale a lungo non sappiamo dare un nome, sinché alla fine non si rivela come nostro compito - quel tiranno che è in noi si prende una terribile rivalsa per ogni nostro tentativo di evitarlo o di sfuggirgli, per ogni prematura rassegnazione, per ogni equiparazione con coloro cui non apparteniamo, per ogni attività, sia pur degna di stima, che ci distolga dalla nostra causa principale, e finanche per ogni virtù che possa preservarci dalla durezza della nostra più vera responsabilità. E malattia è sempre la risposta, quando vogliamo dubitare del nostro diritto al nostro compito, - quando cominciamo a rendercelo più facile in un punto qualsiasi. Strano e terribile insieme! Sono i nostri alleviamenti quelli che dobbiamo scontare nel modo più duro! E se poi vogliamo tornar sani, non ci rimane scelta: dobbiamo addossarci un carico più pesante di quanto non lo fosse prima…

10.

Non sentire nuove catene. - Fino a che non sentiamo di dipendere da qualcosa, ci riteniamo indipendenti: una conclusione errata che dimostra come l'uomo sia presuntuoso e assetato di dominio. Egli infatti presume di dover notare e riconoscere in ogni caso la dipendenza non appena la subisce, con il presupposto che egli vive normalmente nell'indipendenza e che, se eccezionalmente la perdesse, sentirebbe immediatamente un contrasto del sentimento. - E se invece fosse vero il contrario: che egli vive sempre in una molteplice dipendenza ma si ritiene libero quando, a causa della lunga abitudine, non sente più il peso delle catene? Solo per le nuove catene egli soffre ancora: - «libertà del volere» non significa altro che non sentire nuove catene.

30.

Al telaio. - Ai pochi che provano gioia a sciogliere l'intreccio delle cose e a disfarne la trama, molti oppongono il lavoro contrario (per esempio, tutti gli artisti e le donne), di rannodarlo e aggrovigliarlo sempre di nuovo, trasformando così il compreso in incompreso, e possibilmente in incomprensibile. Cosa, comunque, ne risulti, - quanto è stato tessuto e annodato necessariamente apparirà un pò sporco, perché vi lavorano e lo tirano troppe mani.

223.

Dove si deve viaggiare. - L'immediata osservazione di sé non basta affatto a conoscere se stessi: ci occorre la storia, poiché il passato continua a fluire in noi in cento onde; noi stessi anzi non siamo nulla se non quello che istante per istante percepiamo di questo fluire. E persino qui, quando vogliamo discendere il fiume dell'apparentemente più nostro e personale essere, vale il detto di Eraclito: nessuno scende due volte nello stesso fiume. - E’ una massima che pian piano è diventata stantia, pur rimanendo tuttavia sostanziosa e nutriente come sempre fu: e così pure l'altra secondo cui per capire la storia occorre cercare i resti viventi di epoche storiche: occorre viaggiare, come viaggiò il vecchio Erodoto, verso nazioni - le quali sono solo più antichi gradini culturali consolidati, sui quali ci si può disporre -, soprattutto verso le cosiddette popolazioni selvagge e semi-selvagge, là dove l'uomo ha smesso, oppure non ha ancora indossato, l'abito europeo. Esistono però anche un'arte e una finalità del viaggiare più sottili, che non sempre costringono a spostarsi di luogo in luogo e per migliaia di miglia.

Molto probabilmente anche accanto a noi gli ultimi tre secoli sopravvivono in tutte le loro sfumature e rifrazioni culturali: vogliono solo essere scoperti. In alcune famiglie, anzi in singoli uomini, gli strati stanno ancora sovrapposti in modo bello ed evidente: altrove ci sono sfasature e incurvamenti della roccia difficili a capire. Certo in luoghi appartati, in valli montane meno frequentate, in comunità più chiuse si è potuto conservare più facilmente un campione venerando di ben più antico sentimento, e qui deve essere rintracciato: mentre per esempio è improbabile fare scoperte del genere a Berlino, dove l'uomo viene al mondo estenuato e provato. Chi, dopo lungo esercizio in quest'arte del viaggiare, è diventato un Argo dai cento occhi, alla fine accompagnerà dappertutto la sua Io - voglio dire il suo ego -, e in Egitto e in Grecia, a Bisanzio e a Roma, in Francia e in Germania, nelle epoche dei popoli nomadi e di quelli sedentari, nel Rinascimento e nella Riforma, in patria e fuori, anzi nel mare, nel bosco, nelle piante e nei monti riscoprirà le avventure di viaggio di questo ego nel suo divenire e nelle sue trasformazioni.

- Così conoscenza di sé diviene conoscenza del tutto in rapporto a tutto il passato: così come, dopo un'altra serie di osservazioni, che qui accenniamo soltanto, negli spiriti più liberi e più lungimiranti autodeterminazione e autoeducazione potrebbero diventare un giorno determinazione del tutto in rapporto a tutta l'umanità futura.

366.

«Persegui un'individualità». - Le nature attive e di successo non si comportano secondo il motto «conosci te stesso», bensì come se avessero presente l'imperativo: persegui un'individualità, e sarai tu stesso individuo. - Sembra che il destino abbia lasciato loro ancora la scelta; mentre gli inattivi e i contemplativi continuano a meditare su come hanno scelto quell'unica volta, quando sono entrati nella vita.

Aurora (1881)

9.

Ogni azione individuale, ogni individuale modo di pensare provoca un brivido; non è possibile calcolare cosa devono aver sofferto nell'intero decorso della storia gli spiriti più rari, più raffinati, più originali per il fatto di esser sentiti come malvagi e pericolosi, anzi per il fatto che essi stessi si sentirono tali.

L'originalità di ogni tipo, sotto il dominio dell'eticità dei costumi, ha acquistato una cattiva coscienza; fino a questo momento il cielo dei migliori ne è stato ancor più oscurato di quanto avrebbe dovuto essere.

13.

Per una nuova educazione del genere umano. Cooperate, dunque, voi uomini soccorrevoli e ben intenzionati, ad un'unica opera, ad allontanare cioè dal mondo intero quel concetto di castigo che lo ha soffocato! Malapianta peggiore non v'è! Non solo la si è posta nelle conseguenze dei nostri modi d'agire - e come è già spaventoso e contrario alla ragione l'intendere la causa ed effetto come causa e pena! - ma si è fatto ancora di più e si è privata della sua innocenza tutta la pura causalità dell'accadere con questa scellerata ermeneutica del concetto di castigo. Anzi, una tale follia si è spinta così lontano, da far sentire l'esistenza stessa come un castigo, - è come se finora a guidare l'educazione del genere umano fossero state le fantasticherie di carcerieri e carnefici.

14.

Chi osa gettare uno sguardo nel deserto delle più amare e superflue tribolazioni interiori nelle quali hanno languito forse gli uomini più fecondi di tutti i tempi! Chi osa udire quel sospiro del solitario e dello sconvolto: «Ah, datemi dunque la follia, o celesti! Follia, tal che io possa finalmente credere a me stesso! Datemi deliri e spasimi, illuminazioni e ottenebramenti improvvisi, sbigottimenti con gelo e calura, quali nessun mortale ha mai provato, con fragori e spiriti vaganti, lasciatemi mugolare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho ucciso la legge e la legge mi angoscia come un cadavere angoscia un vivente: se io non sono più che la legge, allora sono il più reietto tra gli uomini. Il nuovo spirito che è in me donde viene, se non viene da voi? Dimostratemi dunque che io sono vostro; la follia soltanto me lo dimostra».

15.

I più antichi mezzi di consolazione. - Primo grado: l'uomo in ogni malessere e in ogni sventura vede qualcosa per cui deve far soffrire qualcun altro, - in ciò acquista coscienza del persistere del suo potere, e questo lo consola. Secondo grado: in ogni malessere e in ogni sventura l'uomo vede un castigo, cioè l'espiazione della colpa e il mezzo per liberarsi dal malvagio incantesimo di un torto reale o presunto. Quando egli scorge questo vantaggio che la sventura reca con sé, allora non crede più di dover far soffrire un altro per questo, - si dice libero da questa sorta di soddisfazione, perché ora ne ha un'altra.

29.

I commedianti della virtù e del peccato. .- Tra gli uomini dell'antichità che divennero famosi per la loro virtù, c'era, come sembra, una stragrande maggioranza di quelli che recitavano la commedia dinanzi a se stessi: sono stati i Greci in particolare, in quanto commedianti incalliti, ad aver fatto appunto questo, del tutto involontariamente, è ad averlo trovato un bene. Perciò ciascuno era, con la sua virtù, in gara con la virtù di un altro o con quella di tutti gli altri: come non dovrebbero essere state impiegate tutte le arti per mettere in mostra la propria virtù, soprattutto dinanzi a se stessi, se non altro per esercitarsi! A cosa servirebbe una virtù, che non si potesse mostrare o che non si sapesse mostrare! - A questi commedianti della virtù il cristianesimo pose un freno: in compenso inventò il ributtante far pompa e sfoggio del peccato, portò nel mondo la menzognera peccaminosità (fino a oggi tra i buoni cristiani essa è considerata come qualcosa «che dà tono»).

39.

Il pregiudizio del «puro spirito». - Ovunque ha dominato la dottrina della pura spiritualità, essa ha distrutto con i suoi eccessi l'energia nervosa: insegnò a disprezzare il corpo, a trascurarlo o a tormentarlo, e, a causa di tutti i suoi istinti, a tormentare e disprezzare perfino l'uomo; rese ottenebrate, piene di tensione e oppresse le anime, - che per di più credevano ancora di conoscere la causa del loro senso di abiezione e di poterla forse rimuovere! «Nel corpo deve risiedere! esso è ancora troppo fiorente!» così concludevano, mentre in effetti questo stesso con i suoi dolori sollevava una protesta dopo l'altra contro il continuo scherno. Una generale ipernervosità, divenuta cronica, fu infine la sorte di quei virtuosi esseri puramente spirituali: il piacere essi l'avevano imparato a conoscere soltanto nella forma dell'estasi e degli altri prodromi della follia - e il loro sistema giunse al suo culmine quando considerò l'estasi come la mèta più alta della vita e come criterio di condanna per tutto ciò che è terreno.

58.

II cristianesimo e le passioni. - Da parte del cristianesimo ci è dato anche di ascoltare una grande protesta popolare contro la filosofia: mentre la ragione degli antichi saggi aveva sconsigliato le passioni agli uomini, il cristianesimo vuole restituirle ad essi. A tal fine nega alla virtù, così come era stata intesa dai filosofi - come vittoria della ragione sulla passione -, ogni valore morale, condanna la razionalità in generale e sfida le passioni a manifestarsi nella loro estrema forza e magnificenza: come amore di Dio, timor di Dio, come fanatica fede in Dio, come la più cieca speranza in Dio.

59.

Errore come ristoro. - Si può dire ciò che si vuole: il cristianesimo ha voluto liberare gli uomini dal peso delle esigenze morali con il suo credere di indicare una via più breve alla perfezione: proprio come alcuni filosofi si illusero di potersi liberare della faticosa, lunga e complicata dialettica e della raccolta di dati di fatto rigorosamente verificati e rinviarono ad una «via regia alla verità». In entrambi i casi si trattò di un errore - ma certo anche di un grande ristoro per coloro che si trovavano nel deserto sposati e in preda alla disperazione.

66.

Capacità di visioni. - Per tutto il Medioevo l'esser capaci di visioni cioè di un profondo disturbo spirituale! - era considerato come il segno peculiare e decisivo della suprema umanità. E in fondo i medievali precetti di vita per tutte le nature superiori (per i religiosi) miravano a rendere l'uomo capace di visioni! Cosa c'è da meravigliarsi, se ancora nella nostra epoca è straripata una sopravvalutazione di persone semi-sconvolte, deliranti, fanatiche, di persone cosiddette geniali; «esse hanno visto cose che altri non vedono» - certo! e questo dovrebbe renderci guardinghi nei loro confronti, non creduli!

70.

A che serve un intelletto grossolano. - La chiesa cristiana è un'enciclopedia di preistorici culti e intuizioni dalle più svariate origini e perciò è così capace di essere missionaria: essa una volta poteva, e può adesso, giungere ovunque voglia, qui trovava e trova qualcosa di somigliante, cui può adeguarsi e sostituire a poco a poco il suo significato. Non l'elemento cristiano in essa, ma quello pagano-universale delle sue consuetudini è la base della diffusione di questa religione mondiale; i suoi pensieri, che si radicano in un terreno ebraico ed ellenico a un tempo, sin dall'inizio hanno saputo elevarsi al di sopra delle particolarità e delle sottili differenze nazionali e razziali, così come al di sopra dei pregiudizi. Si può pure ammirare la forza di far crescere insieme, una dentro l'altra, le realtà più disparate; non si dimentichi però la spregevole peculiarità di questa forza, - la sorprendente rozzezza e facilità nel soddisfarsi del suo intelletto, all'epoca della formazione della Chiesa, tale da accontentarsi di ogni cibo e di digerire i contrasti come fossero ciottoli.

114.

L'infinita tensione dell'intelletto che vuol far fronte al dolore, fa che tutto ciò verso cui ora egli rivolge lo sguardo risplenda di una nuova luce: e l'indicibile fascino che emanano tutte le nuove illuminazioni, è spesso abbastanza potente da sfidare tutti gli allettamenti al suicidio e da far apparire la continuazione della vita come altamente desiderabile a colui che soffre. Con disprezzo egli pensa a quel piacevole, caldo mondo di nebbie, che l'uomo sano senza riflettere percorre; con disprezzo pensa alle più nobili e amate illusioni, nelle quali un tempo era solito giocare con se stesso; gode ad evocare questo disprezzo come dall'inferno più profondo e di procurare così all'anima la sofferenza più amara: con questo contrappeso resiste appunto al dolore fisico, - sente che proprio questo contrappeso è ora necessario! In un'orrenda chiaroveggenza sul suo essere, grida a se stesso: «sii per una volta il tuo stesso accusatore e carnefice, prendi per una volta la tua sofferenza come la condanna da te stesso inflittati! Godi la tua superiorità di giudice; ancora di più: godi quanto è di tuo piacimento, il tuo tirannico arbitrio! Innalzati al di sopra della tua vita come del tuo soffrire, guarda giù nel fondo e nella sprofondata voragine!».

146.

Passar sopra anche al prossimo. - Come? L'essenza di ciò che è veramente morale starebbe nel fatto di considerare le prossime e più immediate conseguenze delle nostre azioni nei riguardi degli altri e di deciderci in conformità ad esse? Questa è soltanto una morale ristretta e piccolo-borghese, se mai possa dirsi una morale: mi sembra invece un pensiero superiore e più libero quello di guardar oltre anche a queste prossime conseguenze per gli altri e di promuovere mete più lontane, in certe circostanze anche attraverso l'altrui sofferenza, - promuovere per esempio la conoscenza, pur nella consapevolezza che la nostra libertà di spirito, in primo luogo e immediatamente, getterà gli altri nel dubbio, nell'affanno e in qualcosa di peggio ancora. Non potremmo trattare il nostro prossimo almeno come trattiamo noi stessi?

484.

La nostra via. - Quando facciamo il passo decisivo e imbocchiamo la via che viene chiamata la «nostra via», improvvisamente si svela un segreto; tutti, anche chi ci è stato amico e confidente, si erano immaginati fino a questo momento una loro superiorità nei nostri confronti e si sentono offesi. I migliori di essi sono indulgenti e aspettano pazientemente che troviamo di nuovo - loro la conoscono senz'altro! - la «retta via». Gli altri ci scherniscono e agiscono come se fossimo momentaneamente diventati matti o indicano malignamente un seduttore. I più malvagi ci definiscono dei vanitosi buffoni e cercano di dipinger di nero le nostre motivazioni, e il peggiore vede in noi il peggiore dei suoi nemici, uno che ha sete di vendetta per la sua lunga dipendenza, - e ha paura di noi. - Che fare dunque? Io consiglio di cominciare a esercitare la nostra sovranità con l'assicurare a tutti i nostri conoscenti un'amnistia di un anno per ogni sorta di peccati.

La gaia scienza (1882)

Prefazione alla seconda edizione

3.

Soltanto il grande dolore, quel dolore grande e lento che si prende tempo e nel quale bruciamo come legna verde, costringe noi filosofi a scendere nei nostri abissi più profondi e a disfarci di tutta la fiducia, di tutto ciò che è bonario, dissimulante, mite, medio, in cui forse un tempo avevamo riposto la nostra umanità. Io dubito che un tale dolore possa «migliorare»; so però che ci rende più profondi.

Sia che impariamo a contrapporgli il nostro orgoglio, il nostro scherno e la nostra forza di volontà, come quell’indiano che, per quanto violentemente maltrattato, oppone al suo aguzzino la violenza della sua lingua; sia che di fronte al dolore ci ritraiamo in quel niente orientale ― lo chiamano Nirvana ― che altro non è se non un muto, rigido, sordo arrendersi, dimenticarsi, spegnersi; in ogni caso da tali lunghi e pericolosi esercizi di autodominio si esce diversi, con alcuni punti interrogativi in più, ma soprattutto con la volontà di porre più interrogativi, più profondi, più rigorosi, più duri, più cattivi, più taciti di quanto non si fosse fatto fino a quel momento…

Da tali abissi, da tali gravi malattie, dal morbo del dubbio radicale, si esce come rinati, con una nuova pelle, più critici, più cattivi, con un gusto più raffinato per la gioia, con una lingua più tenera per tutte le cose buone, con sensi più vogliosi, con una seconda, pericolosa innocenza nella gioia, più infantili e allo stesso tempo più raffinati di quanto non si sia mai stati.

26. La mia durezza

Debbo passare su cento gradini

debbo salire e vi sento gridare:

«Sei proprio duro, siamo forse di pietra?».

Debbo passare su cento gradini

e nessuno vuol essere gradino.

30. Il prossimo

Non mi piace avere il prossimo vicino:

che se ne vada in alto e lontano!

Come potrebbe, altrimenti, essere la mia stella? ―

49. Parla il saggio

Estraneo al popolo e pure ad esso utile

vado per la mia strada, ora sole, ora nuvola ―

e sempre sopra questo popolo!

10. Una specie di atavismo.

Mi piace intendere le persone rare di un'epoca come virgulti postumi, spuntati all'improvviso, di culture passate e delle loro energie, come la manifestazione, per così dire, dell'atavismo di un popolo e della sua buona creanza: così davvero si può ancora capirne qualcosa! Adesso sembrano estranei, rari, fuori dall'ordinario; e chi senta in sé queste forze, deve coltivarle, difenderle, onorarle e farle crescere contro un mondo diverso e avverso, diventando o un grand'uomo oppure un uomo pazzo e singolare, nella misura in cui, com'è più comune in certe epoche, non va in malora. Un tempo queste stesse caratteristiche erano consuete ed erano quindi considerate banali: non contraddistinguevano nessuno. Forse erano richieste, presupposte; era impossibile diventare grandi grazie a loro, e questo già perché non c'era pericolo di diventare, con loro, anche folli e solitari.

È soprattutto nelle famiglie e nelle caste più conservatrici di un popolo che emergono questi virgulti postumi di vecchi istinti, mentre tale atavismo è improbabile laddove razze, abitudini, scale di valori si alternano con rapidità. Il ritmo infatti, tra le forze che governano lo sviluppo dei popoli, è importante quanto la musica; nel nostro caso è assolutamente necessario un Andante dello sviluppo, in quanto ritmo di uno spirito appassionato e lento: e di questo genere è infatti lo spirito delle stirpi conservatrici.

21. Ai maestri del disinteresse.

Le virtù di una persona sono dette buone non soltanto in riferimento all'effetto che esercitano su di lei ma anche in riferimento all'effetto che ci aspettiamo da loro per noi e per la società: da sempre, nel lodare le virtù, si è stati poco «disinteressati», poco «altruisti»! Altrimenti si sarebbe dovuto vedere che le virtù (come zelo, obbedienza, castità, pietà, giustizia) sono perlopiù dannose per colui che le possiede, in quanto istinti che lo dominano troppo veementemente e avidamente e che non permettono assolutamente alla ragione di bilanciarli con altri istinti.

Quando hai una virtù, una virtù vera, intera (e non soltanto un istintuccio verso una virtù!) ― allora sei una sua vittima. Ma è proprio per questo che il tuo vicino loda la tua virtù! Si lodano le persone operose, sebbene proprio con questa operosità esse danneggino la capacità visiva dei loro occhi e l'originarietà e la freschezza del loro spirito; si loda e si compiange il giovane che si è «ammazzato col lavoro», perché si ritiene: «Per la società nel suo complesso anche la perdita del migliore singolo è soltanto un piccolo sacrificio! Peccato che ci sia bisogno di sacrifici! Sarebbe molto peggio, però, se il singolo la pensasse diversamente e dovesse ritenere la propria conservazione e il proprio sviluppo più importanti del suo lavoro al servizio della società!». E così si ha compassione di questo giovane, non per amor suo, ma perché con la sua morte la società ha perduto uno strumento ad essa dedito e privo di riguardi nei confronti di se stesso. Forse ci si domanda anche se nell'interesse della società non sarebbe stato più utile se avesse avuto un po' più di riguardi nei confronti di se stesso e si fosse conservato più a lungo: si ammette cioè che sarebbe stato vantaggioso, ma si ritiene più elevato e durevole il vantaggio derivato dal fatto che si è offerto un sacrificio e che sono stati confermati ancora una volta, con la massima evidenza, i princìpi della vittima sacrificale.

Ad essere lodata, quindi, è la natura strumentale delle virtù, e con essa quel cieco istinto che domina ogni virtù e che non può essere limitato al vantaggio complessivo dell'individuo, in breve: l'irragionevolezza della virtù, per cui il singolo essere si trasforma in funzione del tutto. La lode della virtù è la lode di un qualcosa di privatamente dannoso, la lode di istinti che privano l'uomo del suo più nobile egoismo e dell'energia di cui ha bisogno per proteggersi.

Certo, per educare e incorporare abitudini virtuose, si tirano fuori una serie di effetti delle virtù che farebbero sembrare affratellati virtù e vantaggio privato, e di fatto una tale fratellanza esiste! La cieca operosità per esempio, la virtù tipica di uno strumento, è presentate come la via per la ricchezza e per l'onore, come l'antidoto più efficace contro la noia e le passioni: ma se ne tace il pericolo, la sua estrema pericolosità. È così che l'educazione tende a fuorviare: essa cerca, con una serie di stimoli e vantaggi, di indirizzare il singolo verso un modo di pensare e di agire che una volta divenuto abitudine, istinto e passione, domina in lui e sopra di lui, contro il suo ultimo vantaggio, ma per il «bene comune».

Quanto spesso vedo che la cieca operosità, pur procurando ricchezze e onori, pregiudica tuttavia gli organi della finezza, in virtù dei quali quella ricchezza e quegli onori potrebbero procurare piacere; inoltre questo strumento principe contro la noia e le passioni presenta l'effetto collaterale di ottenebrare i sensi, e di rendere lo spirito riluttante nei confronti di nuovi stimoli. (La più operosa di tutte le epoche ― la nostra ― non sa che farsene di tutto il suo zelo e di tutti i suoi soldi: ci vuole più genio a spendere che a guadagnare! Ebbene, anche noi avremo i nostri «nipoti»!)

Se l'educazione riesce, ogni virtù del singolo risulta di pubblica utilità e di svantaggio privato, nel senso del più elevato tra i fini privati; ma probabilmente darà luogo anche a un'atrofizzazione spirituale-sensuale o addirittura a un prematuro tramonto; basti menzionare, da questo punto di vista, le virtù dell'obbedienza, della castità, della pietà, della giustizia.

La lode dell'altruista virtuoso, pronto a sacrificarsi ― cioè di colui che non impiega tutte le sue forze e la sua ragione per la propria conservazione, sviluppo, elevamento, promozione, ampliamento di potere, ma vive modestamente è senza pensare a se stesso, forse addirittura in modo indifferente o ironico: questa lode non è comunque nata dallo spirito dell'altruismo!

Il «prossimo» loda l'altruismo perché ne ricava dei vantaggi! Se lo stesso prossimo pensasse in modo «disinteressato», rifiuterebbe ogni smantellamento di energia, ogni danno che l'altro arrecasse a se stesso in suo favore; si opporrebbe alla nascita di tali inclinazioni e, soprattutto, manifesterebbe il suo altruismo non definendolo buono! Ecco qua la contraddizione di fondo di quella morale che proprio adesso riscuote tante simpatie: le motivazioni di questa morale sono in contrasto con i suoi princìpi! Questa morale, col suo criterio di moralità, confuta esattamente ciò a cui fa ricorso per dimostrare se stessa!

Il principio «devi rinunziare a te stesso e offrirti in sacrificio» potrebbe essere decretato, per non contraddire la proprio morale, soltanto da un essere che abbia rinunziato egli stesso al proprio vantaggio e che nell'auspicato sacrificio del singolo abbia trovato il proprio declino. Non appena però il prossimo (o la società) raccomandano l'altruismo per motivi di utilità, si mette in pratica proprio il principio opposto, «devi cercare il vantaggio anche a spese di tutti gli altri», cioè si predica allo stesso tempo un «tu devi» e un «tu non devi!».

46.

Il nostro stupore.

Siamo profondamente e fondamentalmente felici che la scienza ci avvicini a cose che resistono nel tempo e forniscono il fondamento per comunicazioni sempre nuove: né le cose potrebbero andare diversamente! Sì, siamo tanto convinti dell'insicurezza e delle fantasticherie insite nei nostri giudizi e dell'eterno mutare di tutti i concetti e le leggi umane che ci stupisce davvero quanto resistano i risultati della scienza! Un tempo non si sapeva niente della mutevolezza di tutto quanto è umano; il costume della moralità salvaguardava quella fede in base alla quale tutta la vita interiore dell'uomo era incollata con fermagli eterni a una necessità ferrea: forse un tempo si provavano voluttà e stupore analoghi quando si ascoltavano fiabe e storie di fate. Il meraviglioso era così benefico che talvolta gli uomini potevano ben staccarsi delle regole e dell'eternità. Per una volta, non tenere i piedi per terra! Librarsi! Vagare! Folleggiare! Ecco il paradiso e gli stravizi dei tempi antichi: mentre la nostra beatitudine è simile a quella del naufrago che è sceso a terra e tiene tutti e due i piedi ben saldi sulla nostra vecchia terra ― sorpreso del fatto che non oscilli.

120. Salute dell'anima.

La formula prediletta della medicina morale (il cui inventore è Aristone di Chio), per cui «la virtù è la salute dell'anima», dovrebbe quanto meno, per poter essere utilizzabile, essere modificata come segue: «la tua virtù è la salute della tua anima». Perché non esiste una salute in sé, e tutti i tentativi di definire una cosa del genere sono miserabilmente falliti. Che cosa significhi salute, anche per il tuo corpo, dipende dalla tua meta, dal tuo orizzonte, dalle tue forze, dai tuoi impulsi, dai tuoi errori e, infine, dagli ideali e dai fantasmi della tua anima. Si danno così innumerevoli saluti dell'anima e, quanto più si permette al singolo e incomparabile di alzare la testa, tanto più si disimpara il dogma dell'«uguaglianza degli uomini» e, quindi, vengono meno i concetti, tanto cari ai nostri medici, di salute normale, dieta normale, decorso normale. Soltanto allora potrebbe essere venuto il momento di riflettere sulla salute e sulla malattia dell'anima e di identificare la particolare virtù di ciascuno nella sua salute, che però in uno potrebbe avere lo stesso aspetto che in un altro assume il contrario della salute.

Rimarrebbe comunque sempre aperta una domanda importante, se cioè possiamo fare a meno della malattia, persino ai fini dello sviluppo della nostra virtù, e se la nostra sete di conoscenza e autocoscienza non abbiano bisogno tanto dell'anima malata come di quella sana: in breve, se l'univoca volontà di salute non sia un pregiudizio, una vigliaccheria e, forse, un resto di raffinatissima barbarie e arretratezza.

269. A che cosa credi?

Al fatto che i pesi di tutte le cose debbano essere rideterminati.

Che cosa dice la tua coscienza?

«Tu devi diventare colui che sei.»

275. Che cos'è il sigillo della raggiunta libertà?

Non vergognarsi più di se stessi.

297. Saper contraddire.

Ciascuno sa, oggigiorno, che saper tollerare le contraddizioni è un alto segno di cultura. Alcuni sanno persino che le persone più elevate si augurano e si provocano contraddizioni, per avere un cenno sulla propria ingiustizia, che fino a quel momento era loro ignota. Ma saper contraddire, l'aver acquisito una buona coscienza dell'ostilità contro quanto è consueto, tramandato, sacro, - questo è qualcosa di più, rispetto alle due posizioni precedenti, è quel che c'è di veramente grande, nuovo, stupefacente nella nostra cultura, il passo di tutti i passi dello spirito liberato: chi lo sa?

307. In favore della critica.

Adesso ti sembra un errore quanto allora amasti come verità o verosimiglianza: lo allontani da te e ti illudi che la tua ragione abbia riportato una vittoria. Ma forse quell'errore, allorché tu eri diverso - e tu sei sempre diverso - ti era necessario come lo sono ora le tue attuali «verità»: come una pelle che ti dissimulava e celava tante cose che ancora non potevi vedere. La tua nuova vita ha ucciso quell'opinione, non la tua ragione: tu non ne hai più bisogno, essa tracolla, e la sua irragionevolezza ne striscia fuori come un verme, venendo alla luce. Quando esercitiamo una critica, non è qualcosa di arbitrario e impersonale, - essa è, quanto meno nella maggior parte dei casi, una prova che in noi esistono energie vive e trascinanti, che infrangono una corteccia. Noi neghiamo e dobbiamo negare proprio perché in noi vive e vuole affermarsi qualcosa che forse non conosciamo né vediamo ancora! Questo in favore della critica.

328. Danneggiare la stoltezza.

Certo la fede nella riprovevolezza dell'egoismo, predicata con tanta ostinazione e convinzione, ha nel suo complesso danneggiato l'egoismo (a favore, come non mi stancherò mai di ripetere, dell'istinto del gregge!), soprattutto perché gli ha tolto la sua buona coscienza e ha cercato di vedere in lui la vera fonte di ogni infelicità. «Il tuo egoismo è la sventura della tua vita»; questa è stata per secoli la predica, che ha danneggiato notevolmente l'egoismo, togliendogli molto spirito, molta serenità, molta ingegnosità, molta bellezza: essa ha istupidito, imbruttito e avvelenato l'egoismo!

I filosofi dell'antichità, invece, additavano altrove la fonte della sventura; da Socrate in poi i pensatori non si stancarono mai di predicare: «La vostra incapacità di pensare e la vostra stoltezza, il vostro continuare a vivere secondo le regole, la vostra subordinazione all'opinione del vicino è il motivo per cui tanto di rado siete felici, -i più felici siamo noi pensatori, in quanto pensatori». Non vogliamo qui decidere se questa predica contro la stoltezza fosse più fondata di quella contro l'egoismo, ma certamente essa ha tolto alla stoltezza la sua buona coscienza: questi filosofi hanno danneggiato la stoltezza.

338. La volontà di soffrire e coloro che compatiscono.

Come è possibile rimanere sulla propria strada? C'è sempre un qualche grido che ci trascina da una parte; è raro che il nostro occhio non veda qualcosa per cui non sia necessario lasciare per un istante i nostri affari e accorrere. Io lo so bene: ci sono cento modi onorevoli e famosi per perdere la mia strada, modi altamente «morali»! Sì, le opinioni degli attuali predicatori morali della compassione arrivano addirittura ad affermare che per l'appunto questo e soltanto questo sia morale: smarrire la propria strada e accorrere a fianco del prossimo. So questo altrettanto per certo: basta che io mi esponga soltanto alla vista di una vera necessità e sono anch'io perduto! E se un amico sofferente mi dice: «Vedi, io morirò presto; promettimi di morire con me» - glielo prometterei, allo stesso modo in cui la vista di quella piccola popolazione di montagna che combatte per la sua libertà mi indurrebbe a offrirle la mia mano e la mia vita, tanto per scegliere cattivi esempi di buone ragioni.

Sì, esiste una misteriosa seduzione persino in tutto questo suscitare compassione e invocare aiuto: ma la «via che ci è propria» è troppo dura ed esigente e troppo lontana dall'amore e dalla gratitudine degli altri, - e noi non le sfuggiamo a malincuore, a lei e alla nostra coscienza, per rifugiarci nella coscienza degli altri, addentrandoci nel buon tempio della «religione della pietà». Non appena scoppia una qualche guerra, anche nei più nobili di un popolo erompe sempre un desiderio, naturalmente tenuto nascosto: essi si gettano entusiasti verso il nuovo pericolo di morte perché nel sacrificio per la patria credono di poter finalmente trovare quel permesso tanto a lungo cercato, il permesso di evitare la propria meta: la guerra è per loro un circolo vizioso per il suicidio, ma un circolo vizioso compiuto con buona coscienza. E, seppure taccio qualcosa, non voglio qui tacere la mia morale, che mi dice: Vivi nascosto, per poter vivere! Vivi ignorando quanto alla tua epoca pare essenziale! Poni fra te e l'oggi una corazza di almeno tre secoli! E il grido dell'oggi, il frastuono di guerre e rivoluzioni, ti giunga come un mormorio! Puoi anche voler aiutare, ma soltanto coloro di cui tu comprenda appieno le necessità perché vi unisce una sola sofferenza e una sola speranza - i tuoi amici - e soltanto nel modo in cui aiuti anche te stesso: io voglio renderli più coraggiosi, più resistenti, più semplici, più lieti! Voglio insegnare loro quel che adesso soltanto pochi capiscono, e men che meno quei predicatori della compassione: la congioia!

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte prima - I discorsi di Zarathustra

Delle gioie e delle passioni

Fratello, se hai una virtù ed è la tua virtù, non ce l'hai in comune con nessuno.

E di certo vuoi chiamarla per nome e accarezzarla; vuoi vellicarle l'orecchio e spassartela con lei.

Invece, ecco! Ora hai il suo nome in comune col popolo e sei diventato popolo e gregge, con la tua virtù.

Faresti meglio a dire: «E’ impronunciabile e senza nome ciò che fa il tormento e la dolcezza della mia anima ed è anche la fame delle mie viscere».

La tua virtù sia troppo in alto per la confidenza dei nomi: e se devi parlare di lei, non ti vergognare se balbetti.

Parla dunque, e balbetta: «Questo è il mio bene, questo io amo, così mi piace interamente, solo così io voglio il bene.

Non lo voglio come una legge di Dio, non lo voglio come precetto e necessità umana: non sia per me un segnavia per sovramondi e paradisi.

Una virtù terrena sia quella che amo: in essa è poco intelligenza e meno che mai la ragione di tutti.

Ma quest'uccello edificò il suo nido presso di me: per questo lo amo e lo accarezzo, ora cova presso di me le sue uova d'oro».

Così devi balbettare e lodare la tua virtù.

Un tempo avevi passioni e le chiamavi cattive. Ma ora hai soltanto le tue virtù: sono scaturite dalle tue passioni.

Rendesti cara a queste passioni la tua meta più alta: così esse divennero le tue virtù e le tue gioie.

E che tu fossi della stirpe degli iracondi o di quella dei libidinosi o dei fanatici o dei vendicativi.

Alla fine tutte le tue passioni diventarono virtù e tutti i tuoi diavoli angeli.

Un tempo avevi cani feroci nella tua cantina: ma alla fine si trasformarono in uccelli e in soavi canterine.

Del leggere e dello scrivere

Ho imparato a camminare: da allora faccio in modo di correre. Ho imparato a volare: da allora non aspetto di essere urtato per muovermi dal mio posto.

Della guerra e dei guerrieri

Vedo molti soldati: potessi vedere molti guerrieri! «Uniforme» si chiama ciò che indossano: possa non essere uniforme quel che celano sotto di essa!

Del cammino del creatore

Vuoi, tu, fratello mio, andare nell'isolamento? Vuoi cercare il cammino verso te stesso? Indugiati ancora un poco e ascoltami.

«Chi cerca va facilmente perduto. Ogni isolamento è colpa»: così parla il gregge. E tu lungo tempo appartenesti al gregge.

La voce del gregge risuonerà ancora in te. E quando dirai: «Non ho più una coscienza in comune con voi», ci saranno lamenti e dolore.

Ecco, questo dolore fu generato ancora dalla coscienza in comune: e l'ultimo bagliore di questa coscienza è riflesso ancora nella tua amarezza.

Ma tu vuoi andare per il cammino della tua amarezza, che è il cammino verso te stesso? Mostrami allora se hai il diritto e la forza di fare ciò!

Sei una nuova forza e un nuovo diritto? L'inizio di un movimento? Una ruota che gira su se stessa? Sai costringere anche le stelle a ruotare intorno a te?

Ah, c'è tanta cupidigia di vette! C'è spasimo di ambizione! Mostrami che non sei uno di questi libidinosi e ambiziosi!

Ah, ci sono tanti grandi pensieri che non fanno altro che da mantice: gonfiano e rendono più vuoti.

Ti chiami libero? II tuo pensiero dominante voglio udire e non che ti sei sottratto a un giogo.

Sei uno cui è lecito sottrarsi a un giogo? V'è chi gettò via il suo ultimo valore quando gettò via la sua subordinazione.

Libero da che? Che importa a Zarathustra? Limpido deve annunciarmi il tuo occhio: libero a che scopo?

Sai darti da te il tuo male e il tuo bene e sospendere sopra dite il tuo volere come una legge? Sai essere giudice dite stesso e vindice della tua legge?

Terribile è l'essere soli col giudice e vindice della propria legge. Così una stella viene scagliata fuori nello spazio deserto e nel respiro di ghiaccio della solitudine.

Oggi soffri ancora a causa dei molti, tu uno: oggi hai ancora tutto il tuo coraggio e le tue speranze.

Ma verrà il momento in cui la solitudine ti stancherà, la tua fierezza si piegherà, e il tuo coraggio scricchiolerà. Griderai allora: «Sono solo!».

Non vedrai più la tua altezza e troppo vicina vedrai la tua bassezza; il sublime stesso ti incuterà paura come uno spettro. Griderai allora: «E tutto falso!».

Ci sono sentimenti che vogliono uccidere il solitario; se non vi riescono, sono costretti a morire loro! Ma sei tu capace di questo, di essere assassino?

Conosci già, fratello, la parola «disprezzo»? E il tormento della tua giustizia, di essere giusto con quelli che ti disprezzano?

Tu costringi molti a cambiare opinione al tuo riguardo; essi te ne fanno una grave colpa. Giungesti vicino a loro ma passasti oltre: non te lo perdoneranno mai.

Tu li sorpassi: ma più in alto sali, più piccolo ti vede l'occhio dell'invidia. Più di tutti è odiato chi vale.

«Come potreste voi essere giusti con me!» devi dire «io mi scelgo la vostra ingiustizia come la parte a me dovuta.»

Ingiustizia e sozzura gettano essi sul solitario: ma se vuoi essere una stella, fratello, non devi per questo risplendere oro più debolmente!

E guardati dai buoni e dai giusti. Essi crocifiggono volentieri quelli che si inventano la propria virtù, odiano il solitario.

Guardati anche dalla santa semplicità! Tutto è per lei impuro quel che non è semplice, le piace anche giocare col fuoco dei roghi.

E guardati anche dagli assalti del tuo amore! Troppo facilmente il solitario tende la mano a chi incontra.

A certuni non devi dar la mano, ma soltanto la zampa: e io voglio che la tua zampa abbia anche artigli.

Ma il peggior nemico che puoi incontrare sarai sempre tu stesso; tu tendi insidia a te stesso in boschi e caverne.

Solitario, tu sei in cammino verso te stesso! E passa davanti a te il tuo cammino, e ai tuoi sette demoni.

Eretico sarai per te stesso e strega e indovino e buffone, un dubbioso e un impuro e un malvagio.

Devi volerti bruciare dentro la tua fiamma: come vuoi rinnovarti se non sei ridotto in cenere!

Solitario, tu vai per la strada di colui che crea: un dio vuoi crearti dai tuoi sette demoni.

Solitario, tu vai per la strada di colui che ama: te stesso ami e per questo ti disprezzi, come solo chi ama sa disprezzare.

Creare vuole chi ama, poiché disprezza! Che ne sa dell'amore chi non ha dovuto disprezzare proprio ciò che amava!

Col tuo amore va' nell'isolamento e col tuo creare, fratello, e solo più tardi la giustizia ti seguirà arrancando.

Con le mie lacrime va' nell'isolamento, fratello mio. Io amo chi vuoi creare al di sopra di se stesso e così perisce.

Così parlò Zarathustra.

Parte terza

Il viandante

Chi si è sempre troppo risparmiato, alla fine si ammala del suo essersi troppo risparmiato. Sia lodato ciò che rende duri! Io non lodo il paese dove burro e miele scorrono a fiumi!

Imparare a non vedere in dipendenza da quel che siamo è necessario per vedere molto: questa durezza è necessaria ad ogni scalatore.

Ma chi, come uomo della conoscenza, è con gli occhi indiscreto, come potrebbe vedere in tutte le cose al di là dei loro primi piani!

Ma tu, o Zarathustra, volevi contemplare il fondo o lo sfondo di tutte le cose; così devi salire sopra te stesso, avanti, più in alto, finché avrai sotto dite anche le tue stelle!».

Sì! Guardate dall'alto su di me e anche sulle mie stelle: questo sì sarebbe la mia vetta, questo mi è ancora rimasto come la mia ultima vetta!

Dello spirito di gravità

2.

L'uomo è difficile da scoprire e più difficile che mai da scoprire a se stesso; spesso lo spirito mente nei riguardi dell'anima. Ed è opera dello spirito di gravità.

Ma ha scoperto se stesso colui che dice: questo è il mio bene e male: così ha ridotto al silenzio la talpa e il nano che dice «Buono per tutti, cattivo per tutti».

In verità, io non amo quelli per cui ogni cosa è buona e questo mondo è addirittura il migliore possibile. Io chiamo costoro i sempre contenti.

Contentezza perenne, che sa gustare ogni cosa: ma non è il gusto migliore. Io venero i palati e gli stomaci difficili e caparbi, che impararono a dire «io» e «sì» e «no».

Ma masticare e digerire tutto questo è proprio da maiali! A dire sempre di sì questo io imparò soltanto l'asino e chi è come lui!

Il giallo profondo e il rosso ardente: questo vuole il mio gusto, che mescola sangue a tutti i colori. Ma chi dipinge di bianco la propria casa, tradisce un'anima dipinta di bianco.

Di mummie innamorati gli uni, gli altri di spettri; ed entrambi egualmente avversi a ciò che è carne e sangue oh, come sono entrambi contrari al mio gusto! Poiché io amo il sangue.

E non voglio abitare e sostare là dove ognuno sputa e vomita: questo è appunto il mio gusto, preferisco allora vivere tra ladri e spergiuri. Nessuno ha l'oro in bocca.

Ma ancora più ripugnanti sono per me tutti i leccapiedi; e l'animale umano più ripugnante che abbia mai trovato l'ho battezzato parassita: non voleva amare, ma vivere d'amore.

Sciagurati chiamo tutti quelli che hanno soltanto una scelta: diventare cattivi animali o cattivi domatori: vicino a loro non mi edificherei la capanna.

Sciagurati chiamo anche quelli che devono sempre attendere sono

contrari al mio gusto: tutti gli esattori, i mercanti e i re e gli altri custodì di paesi e di negozi.

In verità, imparai anche ad attendere e fino in fondo, ma solo ad attendere me stesso. Ma sopra ogni cosa imparai a star fermo e a camminare e a correre e ad arrampicarmi e a danzare.

Ma questa è la mia dottrina: chi vuol imparare a volare, deve prima imparare a stare fermo e ad andare e a correre e ad arrampicarsi: il volo non si conquista di un volo!

Con scale di corda imparai ad arrampicarmi su più di una finestra, con agili gambe giunsi fino in cima ad alti alberi di nave; starmene appollaiato su alti alberi della conoscenza non mi sembrò poca beatitudine,

come fiammella guizzare su alti alberi di nave: piccola luce, invero, ma grande conforto a naviganti e naufraghi sperduti!

Per svariate vie e modi pervenni alla mia verità: non su un'unica scala raggiunsi la cima di dove il mio occhio spazia nelle mie lontananze.

E sempre malvolentieri domandavo la strada era sempre contrario al mio gusto! Preferivo interrogare io stesso le strade e tentarle.

Un tentare e interrogare fu sempre il mio andare: e in verità si deve imparare anche a rispondere a questi interrogativi! Ma questo è il mio gusto:

non è né buono né cattivo: è soltanto il mio gusto, di cui né più mi vergogno né faccio più mistero.

«Questa è ora la mia strada, dov'è la vostra?» così rispondevo a quelli che mi chiedevano «la strada».

La strada infatti non c'è!

Così parlò Zarathustra.

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

29.

E’ di pochi, essere indipendenti: è privilegio dei forti. E chi tenta, anche avendone il miglior diritto, ma senza esservi costretto, dimostra con ciò di essere verosimilmente non solo forte, ma audace sino all'eccesso. Entra in un labirinto, moltiplica i pericoli che la vita già di per se stessa comporta; dei quali non è il minore il fatto che nessuno veda con i proprio occhi dove e come si stia smarrendo, si isoli e venga fatto a pezzi da un qualche speleo-minotauro della coscienza. Posto che un tale individuo vada verso la rovina, ciò avviene in modo così estraneo alla comprensione degli uomini, che essi non lo compatiscono e non lo sentono: ed egli non può più tornare indietro! Non può più tornare neppure alla compassione degli uomini!

31.

Negli anni giovanili si venera e si disprezza ancora senza quell'arte della nuance che costituisce il miglior profitto della vita e giustamente bisogna scontare con severità l'aver aggredito in tal modo con un sì o un no uomini e cose. Tutto è disposto in modo che il peggiore dei gusti, il gusto dell'assoluto venga orribilmente ingannato e che si abusi di lui, finché l'uomo non impari a porre un po' d'arte nei suoi sentimenti e meglio ancora finché non osi tentare l'artificio: come fanno i veri artisti della vita. Il sentimento dell'iracondia e della venerazione, che sono propri della gioventù, sembrano non darsi pace se prima non hanno falsato uomini e cose tanto bene che ci si possa sfogare contro di essi: ‑ la gioventù è già in sé qualcosa di falsificante e ingannatore.

Più tardi, quando la giovane anima, martoriata da acute disillusioni, si rivolta alla fine sospettosamente contro se stessa, ancor sempre ardente e selvaggia, anche nella sua diffidenza e nei rimorsi della sua coscienza: come si incollerisce ora contro se stessa, come si dilania con impazienza, come si vendica per la sua lunga cecità, come se fosse stata una cecità volontaria! In questo trapasso ci si punisce con la diffidenza verso il proprio sentimento; si tortura il proprio entusiasmo con il dubbio, si sente addirittura la buona coscienza come un pericolo, quasi come un autoffuscamento e un rilassamento della rettitudine più pura; e soprattutto si prende partito, si prende per principio partito contro la «gioventù». Un decennio più tardi: e si comprenderà, che anche tutto ciò era ancora gioventù!

41.

Occorre provare a se stessi di essere destinati all'indipendenza e al comando; e al momento giusto. Non ci si deve sottrarre alle proprie prove, nonostante esse siano forse il gioco più pericoloso che si possa giocare e in definitiva prove che vengono portate solo dinnanzi a noi stessi come testimoni e a nessun altro giudice. Non bisogna restare attaccati a una persona; sia pure la più amata, ogni persona è una prigione, e un rifugio. Non bisogna restare attaccati ad una patria: sia pure la più sofferente e la più bisognosa di aiuto, e già meno difficile liberare il proprio cuore da una patria vittoriosa. Non bisogna restare attaccati alla compassione: sia pure per uomini superiori, il cui singolare martirio e abbandono un caso ci ha permesso di conoscere. Non bisogna rimanere attaccati ad una scienza: anche se ci alletta con le più preziose scoperte, tenute in serbo, in apparenza, proprio per noi. Non bisogna restare attaccati alla propria liberazione, a quella lontananza ed estraneità piena di gioia dell'uccello che vola sempre più in alto, per allargare sempre di più lo sguardo sotto di sé: il pericolo di chi vola. Non bisogna restare attaccati alle nostre proprie virtù e diventare noi stessi, nella nostra totalità, la vittima sacrificale di una qualche singola parte, per esempio del nostro «spirito d'ospitalità»: che è il pericolo dei pericoli nelle anime nobili e ricche che trattano se stesse con prodigalità, quasi con indifferenza e portano la virtù della liberalità quasi fino al vizio. Bisogna sapersi difendere: massima prova di indipendenza.

43.

Bisogna tener lontano da sé il cattivo gusto di voler essere d'accordo con molti. «Bene» non è più bene, se è pronunciato dalla bocca del vicino. E come potrebbe esserci addirittura un «bene comune»! La parola contraddice se stessa: ciò che può essere comune, ha sempre solo uno scarso valore.

44.

E per quanto riguarda la pericolosa formula «al di là del bene e del male» con la quale per lo meno ci difendiamo dall'essere scambiati con altri: noi siamo diversi dai «librespenseurs, «liberi pensatori», «Freidenker» o come vogliono chiamarsi tutti questi onesti intercessori delle «idee moderne». Siamo stati di casa, o perlomeno siamo stati ospiti in molte regioni dello spirito; siamo sempre nuovamente sfuggiti dagli oscuri piacevoli cantucci nei quali parevano confinarci predilezioni e odi pregiudiziali, giovinezza, origine, il caso di uomini e libri, o addirittura le fatiche del vagabondaggio; pieni di cattiveria contro gli allettanti strumenti della dipendenza, che sono nascosti negli onori, nel denaro, o negli impieghi, o nell'esaltazione dei sensi; grati addirittura alla miseria e alla mutevole malattia, poiché sempre ci hanno liberato da qualsiasi regola e dal suo «pregiudizio», grati a Dio, al diavolo, alla pecora e al verme che sono in noi, curiosi fino al vizio, indagatori fino alla crudeltà, con dita pronte all'inafferrabile, con denti e stomaco per l'indigeribile, pronti a ogni mestiere che pretenda acutezza e sensi pronti, pronti a osare tutto, grazie a un'eccedenza di «libero volere», con anime manifeste e segrete, di cui nessuno può scorgere facilmente le ultime intenzioni, con primi piani e retroscena che nessuno potrebbe percorrere fino alla fine, nascosti sotto il manto della luce, conquistatori, anche se siamo simili agli eredi e ai dissipatori, ordinatori e collezionatori da mattina a sera, avari della nostra ricchezza e dei nostri cassetti stipati, parsimoniosi nell'apprendere e nel dimenticare, ingegnosi negli schemi, di quando in quando fieri delle1nostre tavole di categorie, a volte pedanti, a volte gufi del lavoro anche in pieno giorno; e, quando è necessario anche spauracchi e oggi è necessario: in quanto siamo sin dalla nascita amici giurati e gelosi della solitudine, la più notturna e la più meridiana: un tal genere di uomini siamo noi, noi liberi spiriti! e forse ci assomigliate, voi che state giungendo? voi nuovi filosofi?

146.

Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare con ciò un mostro. E se guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso guarderà in te.

201.

Quanto o quanto poco pericolo per la collettività, pericolo per l'uguaglianza vi sia in un'opinione, in una condizione e in una passione, in una volontà, in un impegno, questa è ora la prospettiva morale: la paura è anche qui, di nuovo, la madre della morale. Contro gli istinti più alti e più forti, quando essi, erompendo appassionatamente, trascinano il singolo molto al di là e oltre la media e la bassezza della coscienza del gregge, perisce la coscienza di sé della comunità, la sua fede in sé, si spezza, per così dire, la sua spina dorsale: di conseguenza si preferisce addirittura bollare a fuoco e calunniare appunto questi istinti. La alta, autonoma spiritualità, la volontà di solitudine, la grande ragione vengono già sentite come pericolo; tutto ciò che innalza il singolo sopra il gregge e incute timore al prossimo prende d'ora in poi il significato di cattivo; l'atteggiamento equo, modesto, l'atteggiamento di chi si inserisce, l'uguaglianza, la mediocrità dei desideri vengono onorati e designati come morali.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

1.

Non si deve volere da se stessi quello che non si è capaci di fare. Ci si interroghi: vuoi andare avanti? Oppure, vuoi andare-avanti-per conto tuo?

Nel primo caso, si diventa, al più, pastore, necessario bisogno del gregge. Nell'altro caso si deve poter fare qualcosa d'altro, -poter-andare-per conto proprio, poter-andare in altro modo e in altro luogo. In entrambi i casi si deve poter fare qualche cosa e se si può fare l'una cosa, non si può volere l'altra.

116.

Taluni vanno a cercare dove qualcosa sia immorale: quando essi giudicano: «questo è ingiusto»; credono che bisogna eliminarlo e cambiarlo. Al contrario io non ho mai pace fino a quando non abbia in chiaro, di una cosa, la sua immoralità. Dopo averla portata alla luce, il mio equilibrio si ristabilisce.

Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è (1888)

Le considerazioni inattuali

3.

La mia abilità è di essere stato molte cose e in molti luoghi, per poter divenire uno, per poter raggiungere l'unità. Ho dovuto essere anche un dotto, per un certo tempo.

Umano, troppo umano

Con due continuazioni

3.

Con pena mi vidi magrissimo, affamato: le realtà mancavano proprio nella mia scienza, e le «idealità», chissà a cosa servivano! Mi prese una sete quasi bruciante: da allora in poi non mi sono occupato d'altro che di fisiologia, medicina e scienze naturali, anche agli studi propriamente storici sono ritornato solo quando il compito mi obbligò imperiosamente a farlo. Allora indovinai anche, per la prima volta, il rapporto tra un'attività scelta contro i propri istinti, una cosiddetta «professione», per la quale non si è affatto chiamati e quel bisogno di anestetizzare il senso di vuoto e di fame con un'arte narcotica per esempio con l'arte wagneriana.

Perché sono così accorto

9.

A questo punto non si può più fare a meno di dare la vera risposta alla domanda come si diventa ciò che si è. Arrivo così al capolavoro nell'arte dell'autoconservazione l'egoismo... Ammesso cioè che il compito, la determinazione, il destino del compito sia molto al di sopra della media, nessun pericolo sarebbe maggiore di vedere se stessi di fronte a questo compito. Divenire ciò che si è presuppone che non si indovini neppure lontanamente ciò che sì è. Da questo punto di vista anche i passi falsi della vita hanno il loro senso e il loro valore, le temporanee deviazioni e gli sviamenti, le esitazioni, i «pudori», la serietà sprecata in compiti che stanno al di là del compito. In ciò si manifesta una grande accortezza, addirittura la massima astuzia: laddove il nosce te ipsum sarebbe il mezzo più sicuro per perdersi, il dimenticarsi, il fraintendersi, il ridursi, il limitarsi, il mediocrizzarsi diviene ora la ragione stessa. Per dirla in termini morali: l'amore del prossimo, una vita dedicata agli altri e alle altre cose può essere la regola di difesa per il mantenimento del più rigido senso di sé. E’ il caso eccezionale nel quale, contro la mia regola e la mia convinzione, prendo partito per gli impulsi «disinteressati»: essi lavorano, qui, al servizio dell'egoismo, dell'autodisciplina.

Il caso Wagner. Un problema di musicisti (1888)

Epilogo.

Si deve dedicare la propria passione a cose alle quali oggi nessuno la dedica...

L’Anticristo (1888)

LIV

Non lasciamoci ingannare: i grandi spiriti sono scettici. Zarathustra è uno scettico. La forza, la libertà, dovute al vigore e a un eccesso di forza dello spirito, si dimostrano con scetticismo. Gli uomini di convinzione non arrivano affatto a considerare il principio di valore e di disvalore. Le convinzioni sono prigioni. Costoro non vedono sufficientemente lontano, non guardano sotto di sé: invece, perché si possa parlare di valore e di disvalore, bisogna vedere cinquecento convinzioni sotto di sé, dietro di sé... Uno spirito che vuole fare grandi cose, che vuole anche i mezzi per realizzarle, è necessariamente uno scettico. La libertà da ogni sorta di convinzioni è parte integrante della forza, come il saper guardare liberamente...

La grande passione dello scettico, fondamento e potenza del proprio essere, ancora più illuminata, più dispotica di quanto sia egli stesso, prende al proprio servizio tutto il suo intelletto; lo rende intrepido; gli dà persino il coraggio di usare mezzi empi e, all'occorrenza, gli concede delle convinzioni. La convinzione come mezzo: si può raggiungere molto soltanto per mezzo di una convinzione. La grande passione necessita e si serve delle convinzioni, ma non si sottomette a esse, si riconosce sovrana. Viceversa, il bisogno di fede, di qualcosa non condizionato da un sì o da un no, il carlylismo, se mi è concesso usare l'espressione, è un'esigenza della debolezza.

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Prefazione

La guerra è sempre stata la grande saggezza di tutti gli spiriti divenuti troppo interiori, troppo profondi; persino nella ferita v'è ancora una forza risanatrice. Da molto tempo il mio motto preferito è un detto, la cui origine tengo celata alla curiosità erudita:

increscunt animi, virescit volnere virtus.

Un'altra guarigione, da me talvolta ancor più desiderata, è nell'auscultare gli idoli... Al mondo ci sono più idoli che realtà: è questo il mio «cattivo sguardo» per questo mondo, e questo è anche il mio «cattivo orecchio»... Porre qui, per una volta, domande col martello e, forse, udire per risposta quel famoso suono cupo che parla di visceri enfiati che delizia per uno che, dietro le orecchie, ha ancora altre orecchie per me vecchio psicologo e acchiappatopi, davanti a cui deve trovar voce proprio ciò che vorrebbe restare in silenzio..

Detti e frecce

21.

Mettersi solo in situazioni ove non si debbano possedere false virtù, ma in cui piuttosto, come il funambolo sulla corda, o si cade o si sta fermi oppure se ne viene fuori...

37.

Corri avanti? - Lo fai come pastore? o come eccezione? Un terzo caso sarebbe: come l'evaso... Primo problema di coscienza.

38.

Sei schietto? o solo un attore? uno che rappresenta qualcosa? o la stessa cosa rappresentata? - Alla fine sei semplicemente la scimmiottatura di un attore... Secondo problema di coscienza.

41.

Vuoi andare con gli altri? o andare avanti? o andartene per conto tuo?... Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole. - Quarto problema di coscienza.

42.

Erano gradini per me, li ho saliti - a tal fine ho dovuto oltrepassarli. Ma quelli credevano che volessi riposarmi su di loro...

44.

Formula della mia felicità: un sì, un no, una linea retta, una meta…